Una vita fra la canapa

Introduzione

La produzione della canapa (canva) si è protratta nel nostro territorio fino al 1952, 1953, poi è rapidamente scomparsa con l’arrivo in quantità dei prodotti tessili industriali.
Nella bassa ravennate la canapa è principalmente servita a soddisfare le necessità della famiglia, in particolare quella contadina.
Poichè non è stato buttato via niente, la canapa ormai prodotta è rimasta conservata nei magazzini delle case ed è stata filata fino alla fine degli anni cinquanta.

La canapa viene seminata verso la fine di marzo e l’area dove la canapa cresceva era chiamata il canapaio, e’ canaver.
Lo spaventapasseri che in dialetto si chiama e’ spintac de canaver, non bastava ad allontanare gli uccelli voraci di semi di canapa e, fino a quando non spuntava la pianticella dal terreno, i ragazzini facevano ogni giorno il turno di guardia al canapaio.

La canapa normalmente cresceva rigogliosa e spesso superava i tre metri. A fine luglio, inizio agosto, con una falce particolare, e’ runcon, i lunghi steli della canapa venivano tagiati e posati a terra per l’essicazione delle foglie.
I manelli venivano incrociati fra di loro con le foglie in alto perchè, in caso di pioggia, l’acqua scivolava via meglio e l’aria in questo modo circolava attorno al fogliame impedendo che la canapa marcisse.
Quando le foglie erano secche i mannelli si sbattevano per terra e le foglie si staccavano facilmente dallo stelo.

Dopo che la canapa era stata portata al riparo presso la casa, se non era di lunghezza uniforme, doveva essere selezionata.
Con quattro picchetti si formava un quadrilatero e sulla scala fissata a due di essi veniva appoggiata la canapa. Dopo aver pareggiato il piede dello stelo e messo un peso sopra di esso si andava a tirare la canapa dalla parte della cima. Si camminava davanti ad essa estraendo per primi gli steli più lunghi.
La canapa veniva raccolta in manelli, manoc, di circa 10/12 centrimetri di diametro, legati alle due estremità con steli di canapa piccola e sottile oppure con rami elastici di salice. Tagliate via le cime più sottili, i mannelli si sistemavano uno inun verso e l’altro nel verso opposto per dare al fascio e’ fes, una forma più cilindrica possibile. Con una ventina di mannelli si formava un fascio grande circa 40 centimetri di diametro e lo si legava in modo molto stretto con rami elastici di salice in tre punti: alle due estremità e al centro.

Verso la metà di agosto i fasci della canapa venivano portati al macero, e’ mesar.
I maceri di S. Pancrazio erano fra i più grandi della Romagna e lunghe file di carri trainati da buoi o birocci tirati da asini attraversavano il paese provenendo da paesi anche lontani.
Per macerare, la canapa doveva restare continuamente immersa nell’acqua.
A questo scopo venivano usate delle traverse di legno di quercia legate alle filagne anch’esse in quercia. Nel caso che alcuni fasci di canapa tornassero in superficie il custode del macero si precipitava in bicicletta ad avvisare il proprietario.

Dopo 12, 15, a volte anche 20 giorni, a seconda del tempo e della temperatura di quell’anno la canapa, si staccava facilmente dal canapulo, e’ canarel, la canapa era macerata. Entro un paio di giorni al massimo bisognava prelevarla dall’acqua.
Quel giorno al macero il lavoro era faticoso.
Ci si consolava con qualche bicchiere di vino, si scherzava con le ragazze, si salutavano le persone mai più viste dall’anno precedente. Era una giornata di festa e di allegria per tutti nonostante il nauseabondo odore della canapa macerata.
I ragazzini, le donne giovani accorrevano per dare una mano ai contadini in cambio de patoc, un mannello di canapa piccola e spezzata. In questo modo tutti si portavano a casa un pò di canapa da filare durante l’inverno per poi tessere la tela per fare lenzuola, asciugamani e altre cose secondo le esigenze della famiglia.

Una volta tolta dal macero e riportata a casa, la canapa veniva messa ad asciugare nella caratteristica posizione di capanna, la prela, cui seguiva la frantumazione. Questa operazione, chiamata in gergo l’ammaccatura, si eseguiva appoggiando il mannello di canapa al piuolo di una scala, facendolo avanzare dopo ogni colpo di 10, 15 centimetri e colpendolo sulla parte sporgente alternativamente da due uomini muniti di bastoni lisci per non stracciare la fibra. La fibra, teia, veniva raccolta per essere gramolata mentre i canapuli venivano ammucchiati per essere utilizzati come combustibile.

Ripulita alla meglio dalla parte legnosa dopo la frantumazione, la canapa veniva passata al gramoletto, e’ gramet. Era un passaggio di sfibratura per eliminare i frammenti legnosi e rendere più soffice la fibra. Il gramoletto, spesso ricavato da un tronco d’albero, aveva un solco solo lungo il tronco ed un solo coltello.
Se il gramoletto non bastava si utilizzava la gramola, la grama, la quale avendo due solchi nella base ed uno nella leva, nel mezzo, era in grado di completare l’operazione di sfibratura.
Qualche decennio prima, quando la produzione della canapa era un’attività economica fiorente, la gramolatura era un lavoro affidato alle gramolatrici, al gramadori, giovani ragazze svelte ed esperte. Quando la canapa divenne quasi esclusivamente un mezzo per soddisfare i bisogni familiari, la gramolatura veniva eseguita dai membri della famiglia stessa.

In autunno, terminati i lavori agricoli, i canapini, i canaven, andavano di casa in casa per pettinare la canapa. La loro attrezzatura era costituita da tavolette di legno con chiodi di ferro temprato molto appuntiti fissati ad esse. Questa specie di pettini detti scapecchiatoi, ma più semplicemente conosciuti come petan da canaven, erano di misure diverse a seconda della grossezza dei denti del pettine. Con ripetuti passaggi a scalare dal pettine grosso a quello fine, la fibra veniva resa sempre più soffice e malleabile. Si ottenevano quattro tipi di prodotto: a) Comento (Cment), fibra grossolana per fabbricare corde; b) Stoparina (Stuparena), per tessitura di sacchi, coperte per animali, teli per uso comune; c) Legoro (Legval), per tessitura di biancheria; d) Fiore (Fior), per tessuti molto fini e filo per cucitura di biancheria. I canapini venivano trattati bene dai contadini perché da essi dipendeva la qualità della canapa da filare. Secondo la tradizione, alle ore 10 si fermavano a mangiare pollo fritto o baccalà in umido, oppure patate, formaggio, piada e vino. A metà pomeriggio, senza fermarsi, una mela e un pezzo di pane. Per la cena, abbondante minestra in brodo con lardo e fagioli. Nelle famiglie più povere invece, insalata e radicchi. Si sa che i canapini, per scambiarsi apprezzamenti sui cibi o sulle persone di casa, usavano fra loro un linguaggio in codice. Questa abitudine è stata riscontrata in un’ampia area della Romagna, anche se i termini e le espressioni risultano avere significati diversi da zona a zona.

L’anno seguente, con l’arrivo del bel tempo, i canapini ritornavano da coloro che avevano bisogno di fare delle corde. Venivano prodotte corde grosse per gli animali, corde per stendere il bucato e spaghi sottili, e’ sfurzen, per vari usi domestici